Ho saputo del caso Weinstein da un servizio in tv: un potente produttore di Hollywood che esigeva “tributi” sessuali dalle donne che aspiravano a lavorare nel mondo del cinema.
Quel che ho fatto è stato alzare il sopracciglio destro, esclamare un “Ma va!” piuttosto annoiato, per poi tornare a limarmi le unghie.
Poi è venuto fuori il putiferio: le attrici molestate negli anni da lui parevano moltiplicarsi ed è stato chiaro che queste richieste “extracurriculari” da parte sua erano la norma.
Ancora un “Ma va!” da parte mia, ma con un filino in più di partecipazione (e irritazione).
Ed ecco spuntare Asia Argento e, al seguito, tutta la bella tradizione italiana che vede nella gonna troppo corta un invito implicito alla violenza perché in fondo se l’è cercata (si lo so, non si tratta di una gonna troppo corta nel caso di Asia, ma la tendenza è quella: la vittima, in Italia, è sempre complice).
Quello che più mi ha irritata, di tutta la vicenda, è stata la condanna sociale pressoché unanime che è piovuta addosso ad Asia, i “poteva scegliere”, i “le ha fatto comodo”, i “si ma la dignità…”.
Perché non riempitevi la bocca di quella parola, “dignità”, se non sapete qual è il suo prezzo.
Prima di fare del burlesque la mia professione, ho lavorato per qualche anno in televisione e dintorni. Stiamo parlando del pleistocene, più o meno.
Se ne ricorda mia madre in panico perché aveva scoperto che la famosa “gatta della metropolitana”, che si aggirava poco vestita nei vagoni della metro milanese, era sua figlia, un mio ex fidanzato che si era vantato con il giornalaio del fatto che quella del calendario fosse la sua ex fidanzata e pure il carrozziere sotto casa mia, che ancora tiene il calendario scaduto in bella vista con il mio autografo (facevo gli “autografi” ai tempi, mica le firme col dito sul tablet del postino quando mi arrivano a casa le multe non pagate).
Poi a un certo punto sono sparita. Non ho più fatto autografi, ma solo firme su contratti di affitto a prezzi sempre inferiori perché si sa, se diminuiscono i lavori diminuiscono anche i soldi.
A distanza di anni mi capita di guardarmi indietro, e io so benissimo quali sono stati i punti nodali della mia carriera, quegli “sliding doors” che hanno fatto sì che i miei sogni di gloria artistica andassero in fumo.
E nessuno di questi snodi riguarda le mie reali capacità artistiche (che magari fanno anche schifo, ma a questo punto non è dato saperlo).
La mia vita nel mondo dello spettacolo è stata costellata da episodi alla “Weistein”, sebbene in forma decisamente più “povera” (mica siamo a Hollywood eh!).
Un mio ex agente di spettacolo mi ripeté più volte “Lisa, per te sarà difficile perché sei una persona pulita”. Ci misi un po’ a comprendere cosa volesse dire quella frase: capitemi, ero una studentessa di psicologia, teatrante per (povera, economicamente) passione, precipitata all’improvviso nel rutilante mondo dello spettacolo.
Questo signore, a suo modo, un modo imbarazzante che tendeva a perpetrare uno status quo, mi ha protetta. Mi ha protetta da quelli che mi avrebbero aiutato ad andare avanti a patto che.
Lui diceva a questi signori che “la Dalla Via non era disponibile”. E intanto la Dalla Via spariva.
Ho poi avuto una liaison con un uomo che lavorava nell’ambiente. Dopo qualche mese mi confessò che, quando manifestò interesse nei miei confronti, gli dissero di lasciare perdere perché “la Dalla Via non te la dà, ti parla solo di lavoro” (cioè, fatemi capire, mi chiamate per un lavoro e io di cosa devo parlare, di ricette sudtirolesi?).
E poi ci fu quel mio amico che mi urlò dietro perché gli confessai di aver respinto le avance di un famoso regista: “Adesso tu lo chiami e gli dici che ci hai ripensato perché non hai capito che se ci stai è fatta”. E niente, non lo chiamai, e lui non mi fece nemmeno fare il provino.
E poi il dirigente che, quando gli chiesi perché mi avevano escluso da un programma nonostante “funzionassi” (ed erano i dati di share a dirlo) mi rispose “Sai, sei una bella donna, sei una donna interessante, magari qualche dirigente si è interessato a te e tu non sei stata abbastanza gentile”. Lo guardai e gli dissi “Questa volta quel dirigente ha trovato una donna che pensa di dover essere brava, non gentile”. Alzai i tacchi e me ne andai. E piansi. Molto.
E poi i “mi dispiace che non abbiano preso te per il ruolo principale ma le decisioni arrivavano dall’alto” e i miei vaffanculo ai tirapiedi della “persona molto influente” desiderosa della mia compagnia e i mie litigi plateali con quelle persone che mi avrebbero spalancato le porte a patto che. Sempre a patto che.
Ma la cosa peggiore, negli anni, è stata sopportare i discorsi degli amici che, quando raccontavo delle mie innumerevoli vicissitudini (che non racconterò qui sennò diventa la divina commedia), mi guardavano contriti e con tono solenne mi dicevano: “Si però quando ti guardi allo specchio la mattina vedi una persona che ha conservato la sua dignità”.
Si cari amici, lo so che mi volete bene, ma io questa dignità sono arrivata paradossalmente a odiarla.
Sapete quante volte ho pensato che se avessi avuto meno “dignità” avrei magari realizzato i miei sogni? Non avrei dovuto cambiare casa, vendere gli stivali di Zanotti perché non c’avevo più un soldo, non avrei dovuto consumare chili di fazzoletti di carta zuppi di lacrime perché “adesso cosa faccio della mia vita”, non avrei dovuto mangiare pane e compromessi lavorativi, non avrei dovuto “ricominciare” con immensa fatica e ricostruirmi sulle macerie della carriera che avevo pensato di poter avere.
La strada della “dignità”, miei cari, è lastricata di sogni infranti che fanno male come pezzi di vetro.
Devi imparare a conviverci, non fanno meno male col tempo, restano eterni a raccontarti della tua impotenza, di quello che avresti potuto essere se. Impari a sopportarli, ma non diventano più morbidi o meno dolorosi. Impari solo ad andare avanti.
E mi sono reinventata una vita, una vita che mi piace e che mi dà soddisfazioni, ma piantatela di raccontare la cazzata che quando mi guardo allo specchio non mi vergogno di me stessa perché ho la dignità. Io mi guardo allo specchio e vedo una che è stata costretta a rinunciare ai suoi sogni.
Quello che pesa di più, miei cari, è il baule pieno di questi sogni infranti che mi porto appresso, e tutti i “se avessi fatto” “se avessi detto” “se fossi stata una donna diversa” che accompagnano la mia esistenza.
Quindi davvero ve la sentite di augurare a tutte di portarsi appresso un tal baule? Davvero pensate che sia così facile rinunciare alla propria carriera, alle proprie aspirazioni come se nulla fosse?
Se nessuna scendesse a “compromessi” e nessuno li chiedesse, sarebbe un mondo bellissimo.
Ma così non è.
E, anche se mi verrebbe da maledire le ex “colleghe” che hanno preso il lavoro al posto mio perché sono state più “gentili” (dò per scontato che alla controparte, ai “potenti” che se ne approfittano, debba toccare un apposito girone dell’inferno), mi chiedo sempre se ne è valsa la pena, se davvero ho fatto la scelta giusta, se la mia “dignità” valeva tutte le lacrime che ho pianto e lo smarrimento e la paura di non farcela ad andare avanti.
Pensateci, a questo baule, prima di lanciarvi in giudizi che non lasciano spazio alle fragilità altrui.
E adesso vi saluto, che c’è il postino che mi chiede un altro autografo.