Alla gente che mi chiede che lavoro faccio rispondo: “Sono una biologa molecolare”.
Dopo il primo “Wow” iniziale la stessa gente, quasi sempre, mi chiede se posso dare un occhio alle sue analisi, in che ospedale lavoro, che farmaco possono prendere se hanno dolore qui o là oppure se hanno questa o quella problematica o se posso dare dritte sulla dieta.
Ora vorrei chiarire una cosa: una biologa non è un’analista, non è un medico e non è una nutrizionista.
Una biologa è una biologa.
Ho deciso di essere una biologa al primo anno delle superiori quando, durante una lezione di biologia nel mio istituto perito tecnico commerciale (volgarmente detto ragioneria), la professoressa mi ha interrogata.
L’argomento era alquanto “difficile” per quell’età ma soprattutto per una ragazzina. La mia interrogazione verteva sulla spiegazione del funzionamento dell’apparato genitale maschile. A fine interrogazione la professoressa si è complimentata per il mio sangue freddo e la mia lucidità nello spiegare un argomento così imbarazzante. Mi sono resa conto in quel momento che adoravo l’idea di saperne di più. Di capire a fondo cosa ci fosse alla base di tutto quello che conoscevo.
Il mio destino era deciso: sarei diventata una biologa.
Mi sono iscritta a Scienze Biologiche per poi continuare specializzandomi in Biologia Molecolare.
I primi anni di università sono stati durissimi. Non avendo fatto il liceo non avevo le basi per poter studiare la materia scelta.
La mia forza di volontà mi ha fatto andare avanti. Mi sono laureata. E successivamente ho fatto il dottorato.
Sono sempre rimasta nell’ambito delle neuroscienze, perché secondo me non c’è niente di più affascinate del capire come funziona il cervello umano.
Logicamente non è tutto oro ciò che luccica. Fare ricerca è il lavoro più bello che io conosca ma è davvero difficile farla bene. Tendenzialmente quello che spinge i ricercatori a non mollare è la consapevolezza che c’è sempre qualcosa che vale la pena studiare.
La probabilità di trovare la cura miracolosa, la molecola speciale, il meccanismo perfetto è lo 0,001%, ma al ricercatore medio basta.
Non importa se il contratto non è dei migliori, se non si hanno ferie, malattie e permessi, se si deve andare di sabato o di domenica a lavoro, perché quello che ti smuove dentro la ricerca non ha paragoni.
(Piccola parentesi: è un peccato sapere che la gente è costretta ad andare via per avere la possibilità di fare carriera nell’ambito della ricerca, ma purtroppo non c’è supporto da parte dello stato).
Personalmente non sono mai rimasta senza lavoro, ma le mie prospettiva di lavoro variano sempre di 6 mesi in 6 mesi, al massimo, quando il gruppo è un gruppo forte, un anno.
In questo momento della mia vita in cui non ho ancora una famiglia mi va bene, ma poi chissà se “passerò al lato oscuro”, ovvero se mi vedrò costretta ad andare a lavorare per qualche azienda farmaceutica.
Però per adesso ho una certezza: mi tengo stretta il mio bancone, le mie pipette e continuo a pensare che la probabilità dello 0,001% di fare la scoperta del secolo in fondo non è così bassa.