“Ho trovato! Potreste chiamarvi Fanfarlo!”.
E’ notte inoltrata, sul tavolo un’ottima bottiglia di rosso finita, un posacenere traboccante sigarette, diversi bicchieri da vino vuoti e diversi bicchieri da amaro pieni.
Vania, la mia amica dei tempi dell’università, che il destino ha avuto il buon cuore di mettermi accanto anche nella mia vita adulta (o pseudo tale), è saltata giù dal divano e ha la faccia di una folgorata sulla via di Damasco. Io rimango un attimo interdetta, chiamo a raccolta i neuroni sopravvissuti a una lunga serata di brainstorming alcolico e realizzo che si, noi siamo “Le Fanfarlo”.
Ma facciamo qualche passo indietro, anzi facciamone davvero tanti.
Il mio primo incontro col burlesque avvenne circa 11 anni fa: fu una folgorazione.
Mi innamorai istantaneamente di quest’arte che coniugava la mia passione per il teatro con quella per la danza con quella per la lingerie e i vestiti “della nonna”, senza trascurare quel pizzico di sensuale esibizionismo frustrato da un fidanzato un po’ troppo distratto.
Ma questa è un’altra storia.
La storia di Fanfarlo invece è fatta anche della mia vita schizofrenica che mi ha voluta studentessa di psicologia, teatrante dai sogni di gloria infranti e femminista sui generis: mai pensato di bruciare i reggiseni in piazza, ho sempre preferito collezionarli. Questo perché la mia libertà dell’essere donna è fatta anche di pizzi e paillettes, tacchi alti e vestiti impegnativi, di sensualità e seduzione che non ha paura di rivelarsi al mondo, di deliziose leggerezze che abbelliscono la vita.
Dopo alcuni anni da burlesque performer, anni in cui ho zampettato in giro seminando reggiseni e piume di struzzo, mi sono accorta che qualcosa in me era cambiato: ero più sicura di me, più allegramente sfrontata, più a mio agio col quel corpo che, da piccola, sembravo sopportare solo perché mi permetteva di portare la testa in giro (quando feci la pole dance in metro vestita da gatta, trovata che mi fece vivere i miei 15 minuti di popolarità, la mia cara maestra mi disse: “Sono contenta che finalmente hai fatto pace col tuo corpo!”).
E così ho cominciato a insegnare, spinta dal desiderio di trasmettere anche alle altre donne quel “piacere di piacersi” a prescindere da tutto, dalle forme, dall’età, dai “cosa potrebbe dire la gente”.
Negli anni ho incontrato mille modi di essere donna attraverso gli occhi delle mie allieve.
Ho conosciuto storie diverse, storie di una sensualità nascosta o negata per paura o timidezza, storie di una femminilità dimenticata in mezzo ai giocattoli dei figli o persa in mezzo agli appuntamenti di lavoro, storie di ricerca della leggerezza o dell’autostima perduta, storie di sorrisi, di bronci e di pianti disperati (anche di rotture di palle eh, mica è tutto liscio e poetico, che credete).
Però quello che ho notato negli anni, tra alti e bassi e patteggiamenti estenuanti con le mie insicurezze, era che questo modo di vivere il burlesque, accendeva sorrisi nuovi.
Ho cominciato così a pensare di raccontare in modo un po’ più “ordinato” il cambiamento che un oggetto insospettabile come un reggicalze, poteva provocare in chi lo utilizzava.
Questo, confesso, anche per un fine beceramente egoista, ovvero quello di placare le ansie di mia madre disperata perché convinta di avere una figlia spogliarellista.
Dal momento in cui ho pensato di far nascere questo progetto al momento in cui questo è accaduto, sono passati anni.
Ma soprattutto sono arrivate persone.
Perché questo progetto, proprio per i principi ne che stanno alla base, non sarebbe mai potuto essere un “one woman show”.
Il destino mi ha voluto bene anche in questo caso (con molta, moltissima calma, prendendosi i suoi maledettissimi tempi stralunghi), facendomi incontrare le “persone giuste”.
Un gruppo di allieve, anzi più gruppi, travolgenti.
Immaginate di mettere insieme donne che tra loro non c’entrano niente, donne che, per coerenza, dovrebbero fare anche file alle poste diverse.
Potreste stupirvi di come questo concentrato di diversità possa diventare un fiume in piena di entusiasmo.
Ed eccoci qui, un insieme improbabile di femmine, pronte a scommettere su un progetto che ci racconta che esistono mille modi di essere donna.
Siamo “Le Fanfarlo”, dal nome della protagonista di un racconto di Baudelaire, che ammaliava il pubblico con le sue seducenti metamorfosi interpretando una miriade di personaggi diversi.
Solo che, a differenza della Fanfarlo di Baudelaire, noi esistiamo anche a prescindere dai personaggi che interpretiamo, siamo i nostri show ma li usiamo anche per uscire da noi o per raccontare un noi insospettabile, talvolta anche a noi stesse.
Cercate una definizione unica del burlesque? Non esiste. Perché, come dico sempre alle mie allieve, esistono tanti modi diversi di fare burlesque quante sono le donne.
Quindi lasciatevi abbagliare dal nostro essere multiformi, dai nostri strass e lustrini, ma non aspettatevi che la realtà sia solo quella che vi si presenta a un primo sguardo.
Perché siamo meravigliosamente stratificate, non solo in scena.
E, soprattutto, se avrete la voglia di seguirci, siate consapevoli del fatto che abbiamo un cervello e un reggicalze. E non abbiamo paura di usarli. Entrambi.