Qualche giorno fa sono arrivate le foto del nostro ultimo show. Io, come una prezzemolina curiosa e smaniosa di vedere tuttecose, sono corsa nelle nostre cartelline interne con l’intenzione di sbirciare tutta la bellezza delle mie compagne. Perché io, si sa, difficilmente riesco a vedermi bella nelle foto.
Tra uno scatto e l’altro però è venuta fuori lei.
Lei sono io. Sono io? Me lo sono chiesta diverse volte guardandola. Mi è sembrata così bella da non potermi riconoscere in tutta quella bellezza. L’ho messa da parte e ci sono tornata più e più volte. L’ho guardata da ogni angolazione, forse nella speranza di cogliere qualcosa che non mi sarebbe piaciuto. Niente. Questa foto mi piace, mi piace assai.
Ma allora, se mi piace così tanto, perché c’è una vocina nella mia testa che continua a dirmi che non è possibile? Perché permane un senso di inadeguatezza che mi allontana dal soggetto nella foto (che ricordo, sono io)? Che non mi permette di accogliere, anche banalmente, la soddisfazione di vedermi bella?
E’ un corpo cambiato, brutalmente e violentemente trasformato
Perché quello che vedete è un corpo (e una persona) che è stato umiliato, calpestato, deriso. Un corpo che oggi appare quasi conforme ai canoni estetici proposti, ma che non è stato sempre così.
E’ un corpo cambiato, brutalmente e violentemente trasformato. Nella mia testa risuonano ancora tutti quei “mucca”, “balena”, “che schifo che fai”, “anche Dio si è dimenticato di te per quanto fai schifo”, “orchessa mangia bambini”, “faccia di cavallo”. E potrei continuare all’infinito.
Ogni volta che vedo una mia foto mi torna in mente quel “bellissimo ritratto” che una mia compagna delle superiori fece sul mio diario: un elefante vestito da ballerina che stava sulle punte.
Non ho mai fatto danza classica, forse di quel disegno avrei dovuto apprezzare il fatto che, tutto sommato, nonostante la stazza, apparivo come una persona delicata. Chi lo sa!
Le parole sono armi affilate che ti rimangono dentro e che, nonostante il passare degli anni, lo sforzo, il lavoro introspettivo, possono tornare a galla e continuare a fare male esattamente come la prima volta.
Che poi… sono mezza sorda, avrei dovuto usufruire di questo super potere invece di ascoltare tali str**zate!
E invece no, purtroppo il disprezzo l’ho sentito bene. Mi è entrato dentro al punto che un giorno, dopo l’ennesimo “quanto fai schifo”, ho deciso che il cibo non mi avrebbe mai più avuta. Ho smesso di mangiare. Mi tenevo in piedi con coca cola zero e qualche barretta ogni tanto. Ho perso all’incirca 50kg. Ovviamente, dopo qualche mese, sono finita in ospedale con una riserva di zuccheri inesistente.
Quando credevo di aver vinto, in realtà avevo permesso all’odio, al disprezzo e al pregiudizio, di sovrastare la mia persona.
Quando credevo di aver trovato un posto riconosciuto nel mondo (più dimagrisci più ti fanno i complimenti), in realtà avevo solo preso posto al tavolo delle richieste sociali. Bianca, abile e magra! BRAVA!
Solo con una maggiore consapevolezza conquistata negli anni e grazie agli studi in psicologia e alla terapia, ho capito di aver sviluppato un DCA (disturbo del comportamento alimentare). Vi assicuro che il gioco non vale la candela.
Convivere con una perenne voce nella tua testa che continua a ripeterti che “Quel pezzo di focaccia lì, guai a te se lo tocchi”, oppure “Quel dolcetto non guardarlo nemmeno, mucca!”, vi assicuro che non diventa meno stancante e deleterio nel tempo.
Adesso ditemelo che sono bona
Per questo, e tanto altro, guardare quella foto mi mette in difficoltà. Perché riconoscere a me stessa che, dopo aver recuperato qualche chilogrammo, riesco ad apprezzare la morbidezza delle mie gambe che si baciano o delle mie guanciottine rosse, è complesso. E’ difficile. E’ maledettamente triggherante!
Riconoscere la validità del mio corpo e della mia persona, a prescindere dal numero sulla bilancia, è un lavoro che costa fatica. Ma è un lavoro che da 4 anni si è arricchito di strass, piume, sorrisi e amore!
Tutte le volte che salgo sul palco butto via un pezzetto di quella tossicità scolpita nel mio DNA.
Ogni volta che vado in Maison mi rendo conto che la famiglia è qualcosa che assolutamente si può scegliere e che talvolta ti permette di rinascere.
Condividere la vita insieme a persone capaci di riconoscere e sottolineare le tue qualità, percepire negli occhi delle altre l’affetto, il sostegno e la voglia di essere lì con te e per te, è impagabile.
Oltre ad aiutarti a riconoscere la tua immagine riflessa allo specchio, può spingerti a fare grandi cose. Come, ad esempio, comprare una macchina dopo 10 anni di patente inutilizzata! Ma questa è una fantastica altra storia che vi racconterò prossimamente…
Adesso ditemelo che sono bona, va! Che in pieno stile Fanfarlo è arrivato il momento di vantarmi delle mie bellezze e dei miei occhi brillanti d’amore per le mie sorelle!