Una delle cose che amo di più della mia vita è il mio lavoro.
Sono una programmatrice informatica e ne sono fiera.
Diventarlo non è stata inizialmente una scelta, ma un percorso iniziato tanti anni fa, che mi ha conquistata facendomi pian piano innamorare.
Quando ero alle superiori mostravo una buona attitudine al problem solving e in generale alle discipline scientifiche.
Un giorno il mio prof di matematica decise di svolgere qualche lezione di base della programmazione e algoritmi. Al successivo compito in classe presentò l’esercizio facoltativo di informatica.
Ovviamente per me, che sono la persona più pigra del mondo, facoltativo equivaleva ad inutile nella valutazione finale. Quindi non lessi neanche il testo, svolsi il compito e tentai di consegnarlo con largo anticipo. Wow, potevo finalmente cazzeggiare!!!
Il prof, che non finirò mai di ringraziare, rifiutò il mio compito, e con fare paterno iniziò a rimproverarmi “Non posso accettare che proprio tu consegni questo compito senza aver nemmeno provato a svolgere l’esercizio. Sei l’unica in questa classe in grado di terminarlo senza errori. Quindi vai a posto e non ti alzi finché non avrai finito l’intero compito.”
Inutile dire che mi fece piangere, ma tornai a posto e svolsi correttamente l’esercizio. Provai così tanta soddisfazione nel trovare la soluzione corretta, che iniziai a studiare informatica nel tempo libero, anche a casa, con grande stupore dei miei genitori che mi avevano sempre visto svogliata e senza voglia di studiare. Pian piano questa passione iniziò a diventare la mia professione.
Purtroppo, come per tutti i grandi amori, quest’anno è arrivata la crisi.
Avevo messo in conto che, cambiando datore di lavoro, prima di essere accettata e stimata come programmatrice informatica in un mondo maschile, avrei dovuto fare un po’ di gavetta. Sapevo infatti che per una donna è ancora più difficile in quanto quello del programmatore, per alcune menti becere e antiquate, fortunatamente in estinzione, è tuttora considerato un lavoro prettamente maschile.
Nonostante queste premesse, mi aspettavo che, dopo aver passato più di un anno impegnandomi al massimo delle mie possibilità a migliorare un prodotto pessimo, sarebbe arrivata una gratifica. Gratifica che non solo mi è stata negata ma, al contrario, sono stata assegnata ad un progetto che definire disastroso è un complimento (la leggenda narra che chi capita in tal progetto dopo un mese viene licenziato, o si licenzia per la disperazione).
Non esisteva un team e l’unico collega con cui mi interfacciavo non mi rivolgeva nemmeno la parola. Ricordo un giorno in cui, con me a fianco, disse al P.M. “Devi dire a quella la (rivolgendosi a me) che deve fare ..bla bla bla… e che se non ci riesce si fa aiutare da uno competente.”
Sono stati i 4 mesi più brutti della mia vita, tutte le sere a casa piangevo e mi disperavo, mettevo in dubbio tutte le mie capacità, mi sentivo sola e non capita. Tutte le mie insicurezze venivano a galla e influenzavano anche la mia vita extralavorativa. Ho smesso di uscire, di cercare gli amici, non stavo più bene con me stessa, mi sentivo una perdente.
Più passavano i giorni, più mi incattivivo, e più sprofondavo in questo labirinto di paranoie, dove non riuscivo ad intravedere una via di fuga. L’orgoglio mi impediva di chiedere aiuto. Mi confidavo solo con la mia famiglia, le uniche persone che ritenevo in grado di capirmi.
Poi circa 2 mesi fa è scattata una cosa strana, per non dire bizzarra, nella mia testolina.
Come ogni giorno, prima di rientrare a casa, svuoto la cassetta delle lettere, contenente solo depliant pubblicitari. Quindi mi preparo per andare in palestra, scendo giù e mi accorgo che la cassetta delle lettere è di nuovo piena.
Mi guardo intorno e mi rendo conto che il vicino, pur di non buttare la sua spazzatura, l’ha imbucata nell’unica cassetta libera, la mia.
D’istinto prendo tutto e lo rimetto nel portalettere del vicino.
Al rientro dalla palestra, stessa identica situazione: la cassetta mia piena, quella del vicino vuota. Di nuovo prendo tutto e lo rimetto in quello che secondo me era il suo posto: la cassetta del vicino.
Rientrata a casa, telefono a mia sorella per lamentarmi della maleducazione del vicino. Lei ride e mi dice ” Vivi, ti rendi conto che ti stai comportando come una bambina?!?”.
In quel momento ho realizzato quello che stavo provando da mesi.
La verità è che mi sentivo una perdente e avevo bisogno di dimostrare a me stessa che potevo ancora vincere.
Lo so che è stupido, ma se mi sono sempre comportata correttamente, e se ho dato sempre il massimo, perché non mi veniva riconosciuta una gratifica, perché la gente se ne approfittava? Volevo almeno questa vittoria, NE AVEVO BISOGNO!”
Dopo quasi 2 anni di battaglie perse e umiliazioni, la soddisfazione ricevuta nell’apprendere che il “vicino di cassetta” si era arreso, ha riacceso in me la voglia di lottare e di conquistare quello che mi spettava di diritto.
Il mio atteggiamento è tornato ad essere sicuro e fiero.
Due giorni dopo ho riconquistato il mio nome, smettendo di essere “quella là”.
Col collega è iniziato pure un rapporto di reciproca stima e collaborazione.
La settimana successiva ho ricevuto i complimenti dalla direzione e dal cliente per il lavoro svolto correttamente: “Ci voleva una donna per far funzionare un prodotto difficile”.
Il mese successivo, l’azienda ha deciso di accettare le mie richieste di cambio progetto, cliente e tecnologie.
Pian piano ho ripreso in mano le redini della mia vita.
Adesso tutto mi sembra un lontano ricordo. Sono di nuovo felice e carica. La crisi è passata e amo ancor di più il mio lavoro: essere una programmatrice informatica mi rende felice e orgogliosa.
Mentre scrivo continuo a ridere pensando che tutto ciò è stato possibile grazie alla maleducazione del mio vicino, che ringrazio con tutto il cuore.